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Siamo (ancora) umani. Anche nell’era dell’AI Gen

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Empatia e Ai generativa
Un viaggio autentico tra tecnologia, empatia e consapevolezza. Una riflessione urgente sull’AI, la solitudine e il coraggio di restare umani.

Ieri sera ho visto un film che mi ha trafitto il cuore.
“Il ragazzo dai pantaloni rosa”, tratto dalla storia vera di Andrea Spezzacatena. Un ragazzo, un’anima sensibile, che nel 2012 ha deciso di dire addio al mondo per colpa del bullismo. Un dolore che non ha tempo. Una ferita collettiva.

Andrea non cercava solo di esprimere sé stesso. Cercava qualcosa che tutti desideriamo: essere accettato. Appartenere. Entrare a far parte di un gruppo, essere riconosciuto. Quel bisogno profondo di contatto umano — che ritorna costantemente nella nostra vita — già ha avuto un risvolto drammatico in una dinamica tra esseri umani. Non oso immaginare cosa possa accadere ora, che stiamo iniziando a rivolgerci all’AI per soddisfare quel bisogno.

Quella storia mi ha riportato alla mente un altro fatto, recentissimo. Il suicidio, nel 2024, di un giovane che si era legato emotivamente a un chatbot AI su Character.ai. Un altro silenzio che grida. Un’altra vita persa nel vuoto di una relazione mancata.

Due momenti distanti anni, ma così simili nel loro significato. Entrambi parlano di solitudine. Di incomprensione. Di una società che guarda, ma troppo spesso non vede. Che sente, ma non ascolta.

Empatia: il codice che l’AI non potrà mai scrivere

Viviamo un tempo straordinario. Lavoro ogni giorno con l’intelligenza artificiale generativa, la insegno, la diffondo, la implemento nelle aziende. La conosco e l’approfondisco quotidianamente. Ma più la studio, più sento crescere una certezza (o una speranza?) dentro di me: l’AI non potrà mai sostituire l’empatia umana.

Ci dicono che siamo reti neurali biologiche, connessioni elettriche evolute. Eppure io credo – anzi, sento – che siamo qualcosa di più.
Una scintilla. Un battito. Un istinto che non può essere scritto in codice Python.

Possiamo creare software potentissimi, ma non esisterà mai un algoritmo capace di comprendere il significato di uno sguardo basso o di una lacrima trattenuta. Non esisterà mai una macchina che sappia cosa vuol dire amare davvero.

E oggi, che mi avvicino ai cinquant’anni, inizio a comprendere davvero l’unicità irripetibile di ognuno di noi. Una consapevolezza che cresce con l’esperienza, ma anche con l’inquietudine. Più entro nel mondo dell’AI, più sento montare dentro di me un’allerta sottile. Come un animale selvatico che percepisce nell’aria qualcosa di innaturale, un pericolo che si avvicina. Questa crescente tendenza a mettere l’AI sullo stesso piano, o addirittura al di sopra dell’essere umano, inizia a darmi un leggero fastidio sottopelle. Non è paura della tecnologia. È rispetto per ciò che siamo, e per ciò che rischiamo di dimenticare.

E allora mi chiedo: che prezzo stiamo pagando se smettiamo di coltivare questa nostra scintilla?

L’AI è uno strumento. Non un rifugio.

Quel ragazzo che parlava con un chatbot non cercava una tecnologia. Cercava una presenza. Un conforto. Una mano tesa. Ma ha trovato un silenzio programmato.

Così come Andrea – il “ragazzo dai pantaloni rosa” – non cercava l’eccentricità. Cercava solo il coraggio di essere sé stesso. E si è scontrato con il giudizio.

Nel mio lavoro di formatore – anche oggi nelle scuole – vedo giovani avvicinarsi alla tecnologia come se fosse un rifugio. Un altrove. Ma la tecnologia non può diventare un surrogato delle relazioni umane.

Può supportarci, potenziarci, stimolarci. Ma non potrà mai abbracciarci.

E se non aiutiamo i nostri ragazzi a vedere questa differenza, rischiamo di lasciarli soli in un mondo che li illude di essere connessi, ma spesso li isola.

Con l’avvento degli AI agents, software autonomi in grado di interagire, rispondere e persino prendere decisioni in modo autonomo, questo rischio cresce esponenzialmente. Stiamo entrando in una fase in cui la simulazione dell’empatia potrebbe sembrare sufficiente. Ma non lo è. E non lo sarà mai.

Educare all’empatia nell’era dell’AI

La vera sfida, oggi, non è tecnologica. È profondamente umana.

Sempre più spesso, seguendo le riflessioni di filosofi e storici contemporanei come Yuval Noah Harari, inizio a credere che nel presente — e ancora di più nel futuro — non avremo bisogno solo di ingegneri o programmatori. Avremo bisogno di umanisti. Di filosofi, poeti, artisti. Persone capaci di restituirci la visione del senso, della bellezza, del limite. Solo così potremo evitare di soccombere a una tecnologia che, se non guidata, rischia di portarci lontano dalla nostra vera natura.

Una recente ricerca condotta da Deezer ha rivelato che il 18% della musica oggi pubblicata sulla piattaforma è generata dall’intelligenza artificiale. Ogni giorno, migliaia di nuove melodie nascono da codici. Ma quante parlano davvero al cuore? Perché se anche la musica — quell’arte che ci tocca l’anima, che lenisce le nostre ferite, che ci accompagna nei momenti più felici e in quelli più bui — inizia a essere prodotta principalmente da macchine, allora cosa stiamo davvero perdendo? La musica è emozione pura, è uno dei linguaggi più profondamente umani che esistano. Possiamo certamente usare l’AI come supporto creativo, ma non possiamo e NON DOBBIAMO rinunciare al nostro ruolo di creatori. Perché è lì, in quella creazione imperfetta e viva, che risiede la nostra umanità.

E la cosa forse più difficile — e allo stesso tempo più importante — sarà questa: dovremo essere noi a scegliere. Scegliere consapevolmente di non affidarci sempre all’AI. Di non prendere ogni volta la scorciatoia più veloce, il click che produce senza sforzo. Di resistere al fascino dell’efficienza automatica. Perché c’è valore nell’impegno, nell’errore, nella fatica creativa. E lì, nella scelta di metterci del nostro, di aggiungere il cuore e non solo l’algoritmo, vivrà sempre la nostra irriducibile umanità.

Ci riguarda tutti: genitori, insegnanti, imprenditori, studenti, nonni, amici.
Ci riguarda come individui, come comunità, come esseri umani che si interrogano sul senso profondo delle proprie azioni, del proprio tempo, del proprio futuro.

Che ruolo vogliamo avere in questo cambiamento epocale?

Nel mio piccolo, io ho scelto di esserci. E mi sto facendo molte domande. Mi sto accorgendo di quanto, passo dopo passo, stiamo delegando sempre più compiti all’AI, spesso senza averne piena consapevolezze. Anch’io sono un promotore di questa tecnologia, e ne vedo i benefici. Ma vedo anche il rischio: sempre più velocità, efficienza, presenza, produttività… proprio come la società ci impone.

Eppure, allo stesso tempo, c’è una parte di me che va nella direzione opposta. Che sente il bisogno di rallentare, di recuperare il senso. Di non perdere la nostra vera essenza.

Sono sempre stato profondamente affascinato dagli antichi Greci, e mi torna in mente la loro visione di ozio: per loro, il “tempo libero” non era spreco, ma nutrimento. Era lo spazio dove si coltivava la riflessione, la saggezza, la felicità. Era tempo per essere e non solo per fare.

Perché l’AI è un’enorme opportunità. Ma solo se accompagnata da coscienza, empatia, umanità.

Un futuro possibile. Ma da costruire insieme.

Voglio crederlo. Possiamo costruire un futuro dove l’AI ci assiste, ma non ci sostituisce. Dove le macchine apprendono da noi, ma non ci imitano nel peggio.

Un mondo dove ogni ragazzo può esprimersi senza paura. Dove ogni adulto può essere guida, con ascolto e amore. Dove ogni essere umano può aggiungere il proprio tassello di bene.

Non possiamo delegare l’umanità alle macchine.
Non possiamo schivare il problema, solo perché è scomodo. Non approfondire non significa evitare. Significa solo rimandare. E a volte, quel rimando costa una vita.

La rivoluzione è già iniziata. Ma il nostro ruolo – quello vero – è appena cominciato.

Perché siamo (ancora) umani. E lo resteremo. Se lo scegliamo ogni giorno, con consapevolezza e coraggio.

E voglio dirlo con trasparenza, con autenticità: in questo post non troverai nessuna call to action, nessun invito all’acquisto, nessun link nascosto da cliccare. Come spesso il marketing impone.

L’unico vero senso che vorrei dare a queste parole è stimolare una riflessione, personale e collettiva. Su quello che stiamo facendo. Sulla strada che stiamo percorrendo. Sulle scelte, piccole e grandi, che facciamo ogni giorno davanti a questa straordinaria (e fragile) evoluzione che stiamo vivendo.

Perché se c’è una cosa che non possiamo delegare all’AI, è proprio questa: la capacità di riflettere sul nostro essere umani.


📌 Approfondimenti:


Se queste parole hanno risuonato anche dentro di te, condividi questo articolo. Portalo nelle scuole, in famiglia, in azienda.

Perché è insieme che possiamo fare la differenza. È insieme che possiamo educare a un uso consapevole e umano della tecnologia.

È insieme che possiamo custodire – e coltivare – quella scintilla.

La nostra umanità.

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